Figli arrabbiati.

Le difficoltà del ruolo genitoriale

printDi :: 13 maggio 2023 06:50
Figli arrabbiati.

(AGR) Autore: Michela D’Argenzio, Psicologa di ALBA

Nelle ultime settimane ho ricevuto diverse richieste d’aiuto da parte di genitori preoccupati; arrivano in studio mamme e papà allarmati, tutti con una simile richiesta, ciascuno con stati d’animo differenti: “Mio figlio è perennemente arrabbiato” mi dicono, “non sa controllare la rabbia” ribadiscono, “mia figlia fa delle scenate assurde”, “ha questi scoppi d’ira improvvisi e nessuno riesce a calmarlo”, “non si controlla, è implacabile: quando si incazza, spacca tutto”. 

Mamme e papà spaventati, arrabbiati, confusi, a volte non concordi nella decisione di rivolgersi ad uno psicologo, altre volte spinti dalle segnalazioni di insegnanti in difficoltà, altre volte ancora assaliti dai sensi di colpa che li spingono ad interrogarsi sul loro ruolo genitoriale.

Queste mamme e questi papà arrivano da me in cerca di spiegazioni, di soluzioni, di risposte o semplicemente in cerca di ascolto, in cerca di qualcuno che possa sostenerli in quello che è uno dei principali obiettivi dell’essere genitore: proteggere e fornire cure al proprio figlio.

E allora come mai questi ragazzi sono così arrabbiati? La prima risposta che mi sento dire dal genitore stesso è che sono adolescenti, che è una fase transitoria e che passerà. Eppure, mentre me lo dicono, non sembrano crederci realmente, non sembrano molto convinti, forse c’è qualcosa oltre quella rabbia; forse c’è qualcos’altro sotto, prima o dopo quella rabbia.

E allora partiamo dall’inizio: che cos’è la rabbia?

Figli arrabbiati.

La rabbia è una delle emozioni fondamentali ed è trasversale a tutte le età, culture ed etnie: ciò significa che bambini, adulti e anziani di tutto il mondo si arrabbiano. 

La rabbia è uno stato emotivo che inizialmente è suscitato dalla percezione di una minaccia e può persistere anche quando la minaccia è passata. Si associa a pensieri di valutazione che sottolineano le intenzioni negative dell’altro e che motivano una risposta di antagonismo: una persona arrabbiata tende a rispondere cercando di contrastare o attaccare la fonte della minaccia percepita. Frequentemente il termine rabbia viene associato ad aggressività e violenza, acquisendo una valenza negativa e perdendo di vista l’utilità e lo scopo evolutivo di tale emozione: mettere confini. 

Una persona che non esprime la sua rabbia, la nega o non la percepisce tenderà a non mettere in atto risposte di difesa da comportamenti di ingiustizia e di danno messi in atto nei suoi confronti e avrà difficoltà ad esprimere i propri bisogni, idee e necessità.

Arrabbiarsi quindi è utile alla nostra sopravvivenza.

La rabbia, come ogni altra emozione, è connotata dall’attivazione fisiologica e da espressioni mimiche e posturali. 

Così, una persona di fronte alla percezione di minaccia sperimenterà un aumento della tensione muscolare, della temperatura corporea, della pressione, della frequenza cardiaca, mostrerà un volto arrossato e teso, con sopracciglia e fronte aggrottati e pugni serrati. 

Insomma, è molto facile riconoscere una persona arrabbiata anche solo osservandola.

Tornando ai nostri adolescenti arrabbiati, dunque, sembrerebbe che essi si arrabbino in risposta ad uno stimolo interno o esterno che viene valutato come ingiusto e dannoso e che ci sia una difficoltà nel regolare l’emozione legata a questo senso di minaccia; ciò li spinge a mettere in atto comportamenti aggressivi di tipo fisico o verbale nei confronti di oggetti o persone, spesso perdendo il controllo. 

Alcune ricerche nell’ambito hanno riscontrato che alcuni bambini e ragazzi con disregolazione della rabbia hanno una modalità distorta di elaborazione dell’informazione sociale, cioè tendono a valutare i segnali da parte delle altre persone in maniera ostile. 

In altre parole, questi ragazzi interpretano le azioni degli altri come guidate da intenzioni malevole e di conseguenza sono portati a reagire in maniera aggressiva. Mostrano, inoltre, anche difficoltà nel risolvere i problemi interpersonali, sono meno efficaci nel trovare nuove soluzioni alternative e considerano l’aggressività come una modalità utile a modulare le emozioni e a gestire i conflitti.

Ci troviamo quindi di fronte ad una situazione di questo tipo: il nostro adolescente si arrabbia perché percepisce una minaccia, interpreta le azioni e le parole dell’altro come ostili, ha un’attivazione delle reazioni corporee ed esprime la sua rabbia rompendo oggetti o insultando persone.

Che fare dunque?

Il lavoro terapeutico

Se un ragazzo giunge al mio studio “portato” dai genitori non è detto che egli riconosca di avere delle difficoltà e che sia favorevole a lavorarci in psicoterapia: questa è l’idea naif che abbiamo dell’adolescente. È “incazzato”, come dice la madre che lo porta da noi, si percepisce incompreso che non vuole essere aiutato. (questa frase non l’ho capita: mi sfugge il senso del “che”)

Nella maggior parte dei casi, tuttavia, in un modo o nell’altro, questi ragazzi sono consapevoli di quanto le proprie espressioni di rabbia esplosiva influenzino le relazioni con i compagni e spesso sono disponibili a farsi aiutare. 

Spesso vogliono un aiuto perché la difficoltà dei genitori a capire perché il figlio si arrabbia, è condivisa dal ragazzo stesso che, confuso e spaventato, si sente trasportato da questi impulsi emotivi provando, successivamente, colpa e malessere .

Ma mamma e papà in tutto ciò che c’entrano?

Come già detto, mamma e papà spesso assistono alle reazioni di rabbia dei propri figli e possono avere difficoltà a comprenderle e a gestirle, tanto da rivolgersi ad uno psicologo. Questa figura non è un giudice severo che attribuisce colpe e designa vittime e carnefici, bensì un professionista che, a partire dalla conoscenza e competenza che i genitori hanno rispetto ai propri figli, guida tutti gli attori coinvolti nell’esplorazione della loro relazione che è densa di significati, con lo scopo di raggiungere una graduale trasformazione del comportamento e delle reazioni emotive di ciascuno. Frase un po’ complessa e lunga. Forse va rimodulata, magari facendone due.

L’attenzione non è dunque solo alla rabbia del ragazzo o della ragazza, ma anche alla paura, lo sconforto o la frustrazione dei genitori, che inevitabilmente entrano in gioco in un complesso sistema di aspettative, richieste e comunicazioni familiari.

Ci si trova davanti ad una sequenza: un susseguirsi di sensazioni corporee, pensieri e reazioni emotive che va esaminata nel dettaglio. 

E allora la prima mossa da fare è quella di osservarsi, di imparare a soffermarsi sui dettagli: cosa stava succedendo prima che mi arrabbiassi? A che cosa stavo pensando? Stavo ricordando qualcosa? Mamma, papà, il professore, un compagno hanno detto qualcosa che ha stimolato in me una determinata sensazione? Come mi sentivo prima che la rabbia montasse? E cosa è successo alla fine? Come ho fatto a calmarmi? Che emozione ho provato dopo l’arrabbiatura? Questa sezione si riferisce al lavoro con i ragazzi: domande che loro stessi si dovrebbero fare o che si possono fare in terapia. Prima invece la centratura è sui genitori. C’è un cambio di registro troppo repentino, oppure si può portare nel capoverso successivo.

Nella stanza di terapia si impara a decostruire il momento della rabbia, a smontarlo in tanti piccoli pezzettini, a scomporlo in tanti frames successivi, per riuscire poi a riassemblare il tutto trovandone un nuovo significato. Una volta che si affina questa capacità, si può lavorare sull’interpretazione delle intenzioni dell’altro, sulla percezione della minaccia (reale o immaginaria) e sulle modalità alternative di problem solving.

Non esiste la rabbia “improvvisa” e nemmeno quella “immotivata”, solo quella non conosciuta.

Comprendere quello che accade nel nostro mondo emotivo è il primo passo per riuscire a gestire meglio un’emozione fondamentale e utile come la rabbia. 

In generale si potrebbe sviluppare in più il concetto di rabbia come emozione funzionale ad alcune fasi di sviluppo. Ad esempio a “mettere confini”, citato all’inizio, ma poi non sviluppato. 

La fase conclusiva, infine, potrebbe essere sviluppata, qualcosa simile all’ultimo capoverso anche per dare un’indicazione al genitore che legge.

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