Finché morte non ci separi
Come affrontare la morte di una persona cara?
(AGR) Di Anna Santangelo
Poche settimane fa è venuto a mancare un mio amico. Si tratta di un amico caro, una presenza stabile della mia vita familiare. Ci stavamo accompagnando nella crescita, di noi genitori e dei nostri bambini.
In un pomeriggio, mentre la primavera sbocciava, in uno dei suoi tanti e amati tragitti in moto, la presunta distrazione di una macchina e il suo conseguente schianto contro un palo lo hanno visto perdere la vita in un istante. Un istante fatale. Un istante che ha stravolto ogni cosa. Tutto quello che c’era prima è cambiato di colpo. Quanta violenza, quanta disperazione.
Ho sentito diverse persone rivolgere commenti verso la sua compagna del tipo: “Quanto è forte lei, io al suo posto non ce la farei”. Io credo che lei non sia forte affatto, perché nessuno è forte abbastanza di fronte a una simile perdita. Credo che quando ci si ritrova a vivere un’esperienza cosi tragica, si abbia necessariamente la capacità di sopravvivere e che ognuno provi a farlo a suo modo, meglio che riesce. Nessuno è più capace di qualcun altro, ma solo chi lo sperimentata sulla sua pelle può capirlo.
Come terapeuti ci troviamo costantemente ad affrontare insieme al paziente il suo modo di stare in relazione e il suo stile di attaccamento. Attraverso la relazione terapeutica lo accompagniamo ad accrescere la consapevolezza che ha verso se stesso e ad agire modalità relazionali più sane, sperimentandole poi all’interno delle sue relazioni significative.
Di fronte alla morte di una persona cara tutto questo si fa diverso e più complicato, perché quello in cui lo accompagniamo è una separazione irrimediabile, forzata e obbligata. Seppur sempre in termini di attaccamento, si lavora su una relazione che è interna e che non sarà mai più sperimentabile all’esterno.
La riflessione a cui mi sono aperta in questi giorni è che tutte le relazioni, senza eccezione alcuna, sono, in realtà, interne. L’altro è sempre visto in riflesso a noi stessi. Nella ricerca del partner o di un amico andiamo alla ricerca dei nostri bisogni e la relazione è il modo attraverso cui cerchiamo costantemente di appagarli. All’interno del legame proiettiamo parti di noi che si incastrano con quelle dell’altro, contribuendo a renderlo importante.
Perdere qualcuno equivale a perdere anche la parte di se stessi che l’altro rappresentava, tanto da sentirci smarriti oltre misura. Allo stesso modo, tutto quello che l’altro ci ha donato di sé è la sola cosa che di lui ci appartiene davvero e che resterà con noi anche di fronte alla sua morte, perché ciò che sta dentro è un libro che resta, per sempre. I maestri spirituali di ogni epoca storica insegnano che tutto ciò che è fuori di noi esiste nella misura in cui lo possediamo dentro e che credere nel contrario è una mera illusione.
Come parlarne ai bambini
I bambini hanno lo stesso diritto di noi adulti di conoscere la verità. Spesso, per proteggerli, si tende a dire che quella persona cara è partita per un lungo viaggio, mossi dalla convinzione che in tal modo garantiamo loro una sofferenza minore. Anche questa è un’illusione. È solo attraverso la verità che possiamo proteggerli, perché è di fronte a quest’ultima che i bambini non ricorrono a darsi spiegazioni personali e spesso taciute di quanto accaduto.
I bambini hanno bisogno di un racconto preciso, di una narrazione che sia interpretabile in un solo modo, così da evitare che possano attribuirsi la colpa di quell’assenza, pensando di non valere abbastanza e di aver, per questo, fatto allontanare quella persona che, di fatto, è partita e non è ancora tornata.
I bambini hanno bisogno di storie che possano dotare quell’informazione di una spiegazione chiara, a cui poter ricorrere ogni volta che ne sentono il bisogno. Inoltre, avvertono qualunque stato d’animo intorno a loro, sono assolutamente capaci di percepire come gli adulti di riferimento si sentono e sono in grado di farlo a qualunque età. La narrazione di ciò che è accaduto deve quindi comprendere le emozioni di chi sta intorno a loro e di loro stessi, così da poterle condividere e inserire all’interno di un contenitore comune.
Questo è un insegnamento inestimabile, perché, se quello che provano può essere espresso, loro si sentono più al sicuro. Percepire la tristezza altrui e poterne parlare, li rassicura enormemente, aiutandoli ad accogliere il proprio e l’altrui sentire per il resto della loro vita.
In terapia
Credo che la terapia, in un primo momento, debba aiutare la persona che ha subito una perdita ad esternare il suo sentire, accogliendolo in tutte le sue sfaccettature ed offrendo un ascolto attivo privo di qualunque giudizio. In seguito, credo debba accompagnarla nell’elaborazione profonda di ciò che è accaduto, nell’accettazione della nuova realtà, nella costruzione di un’identità nuova attraverso cui imparare a riconoscersi.
Restare aggrappati per lungo tempo all’identità precedente è ciò che viene più spontaneo fare, perché apporta l’illusione di restare vicini alla persona che non c’è più, congelando il tempo e fermandolo a quando era ancora in vita. Proviamo ad immaginare che a seguito di un incidente ci vengano amputate le gambe. Condurre la propria vita piangendo le gambe che non abbiamo più ci porta a nutrite sentimenti spiacevoli nei confronti di chi le gambe le ha, aprendo le porte ad una disperazione sempre più grande e restando bloccati in quello che si era, che si vorrebbe ancora essere, ma che non si è più.
Imparare, attraverso il tempo necessario, ad accettare e a guardare alla propria vita con occhi diversi, ma altrettanto amorevoli, è senza dubbio la via più sana da perseguire.